SALEMME, L’UOMO DIETRO LE QUINTE
Arrivato alle 61 primavere Vincenzo Salemme si rivela nei suoi pensieri e sentimenti, aprendo le porte della sua casa affacciata sul Golfo di Napoli,
abbarbicata verso il cielo come il nido da cui l’aquila spicca il volo, ricca di ricordi, spazi luminosi, souvenir di viaggi, piccoli oggetti da collezione: al centro del salone campeggia un maxi schermo “perché amo trascorrere il tempo con i miei affetti, gli amici, i familiari, per vedere in relax i film di cui sono appassionato e non perdere neanche un dettaglio delle partite del Napoli di cui – ça va sans dire – sono tifosissimo: quest’anno “abbiamo” giocato un calcio splendente che ci ha dato grande soddisfazioni ma non il traguardo finale, su cui però non dobbiamo concentrarci, valorizzando invece l’impegno dei nostri calciatori. Certo, anch’io speravo nello scudetto ma ho provato più orgoglio per il bel calcio giocato e, poi, l’ingaggio di Ancellotti, che è il mio allenatore preferito, è stato il colpo più grosso del calcio mercato e promette bene per la prossima stagione”.
A tratti, lo sguardo di Vincenzo corre all’orizzonte soffermandosi sullo skyline da cartolina di Napoli “città bellissima e difficile, ricca di arte e umanità, un mix unico di cultura, storia e contemporaneità: io amo molto questa terra che vivo da privilegiato e le cui avversità mi feriscono profondamente, come gli episodi di violenza e i casi di bullismo che vi si verificano e che non sono degni della nostra grande civiltà, che affonda le sue radici nell’antichità greco-romana”.
Come descriverebbe la “sua” Napoli?
“Penso che chi ritiene di poter giudicare questa straordinaria città pecchi di presunzione, perché Napoli è naturalmente portata al sogno, alla fantasia, alla gioia di vivere; sarà per il mare che la vivifica, per i pendìi che scivolano dolcemente nell’acqua, per lo sciabordìo delle onde sul bagnasciuga ma sembra impossibile non immaginare che la vita sia un bel film, un racconto a lieto fine in cui il bene trionfa sul male, gli eroi salvano i più deboli e i prepotenti sono messi in condizione di non nuocere più. Basta vedere una vela attraversare il Golfo e subito la mente corre all’estate, alle vacanze, alle nuotate fra amici, all’allegria di vivere in un posto meraviglioso che il mondo ci invidia e che porta migliaia di turisti a sfidare la reputazione di invivibilità regalataci da certi media, pur di godere anch’essi di un pezzettino di paradiso”.
E mentre il pomeriggio declina nel crepuscolo, tra un caffè rigorosamente ristretto e uno sguardo alle notizie, Salemme si “confessa” come un libro aperto in cui si condensa il senso dell’esistere e che spiega le ondate di entusiasmo che i suoi spettacoli provocano intorno a lui, rivelandosi come una forza vitale intrattenibile che rompe gli argini ingessati delle convenzioni e spinge a guardarsi intorno con occhi nuovi: la conversazione scivola sul tempo libero che per Salemme è sempre esiguo, impegnato com’è tra sceneggiature, copioni e aggiustamenti dei testi da portare in scena come “Con tutto il cuore” – la nuova, esilarante, commedia da lui scritta, diretta e interpretata, che debutterà in una tournèe autunnale in giro per la nazione prima di approdare al Teatro Diana a Napoli nella primavera 2019 per oltre un mese di repliche che registreranno, come sempre, il tutto esaurito – a cui l’attore aggiunge continuamente spunti suggeriti dall’attualità.
A cosa si dedica nelle pause di lavoro?
“Amo cucinare e preparare i classici della nostra gastronomia, tra cui il ragù (che deve “pippiare” almeno 7 ore), la genovese a manto di monaco per cui ho realizzato un disciplinare tutto mio, le verdure dell’orto, il pesce azzurro, la frittata di maccheroni bianca e rossa, lo spaghetto ai pomodorini del Vesuvio; inoltre so preparare una pasta frolla sensazionale e un ciambellone buonissimo, una sorta di “torta del 3” facile da realizzare e molto golosa.”
Ma riesce ogni tanto a staccarsi dalla terra di Partenope?
“Sì, appena ho qualche giorno libero corro nel mio buen retiro toscano circondato dalle rose, i miei fiori prediletti, per rigenerare le energie e stare a contatto con la Natura, i suoi ritmi e i suoi profumi. Quando il ritmo del lavoro rallenterà vorrei riavere un’animale in casa, giacchè amo moltissimo sia i cani che i gatti: anzi, al mio amatissimo gatto Fortunato dedicai anche uno spettacolo “Il signor Colpo di genio” un atto unico che insieme a “Buonanotte” costituiva la piéce “Sogni, bisogni, incubi e risvegli” (presentato nel 1990 in due piccoli teatrini, il Teatro dell’Orologio, a Roma, e il Sancarluccio, a Napoli) in cui analizzavo con ironia i malesseri psicologici sia maschili che femminili e che ha inaugurato – insieme al mio esordio di commediografo – anche una nuova tipologia di racconto teatrale, più leggero.”
Come mai il suo stile si discosta tanto dai canoni abituali della rappresentazione teatrale?
“Sicuramente i testi della tradizione teatrale sono fondamentali ma credo opportuno che il pubblico si ritrovi in ciò che vede, anche nel linguaggio su cui hanno inciso profondamente film, spettacoli televisivi, talk show e la frequentazione di Internet: io non voglio la complicità del pubblico ma il suo affetto e cerco di farlo riflettere, ma non spingo gli spettatori a esprimere i peggiori sentimenti con una risata di cui poi, tornati alla loro realtà ben definita, potrebbero vergognarsi. “Castigat ridendo mores ” è il principio che tengo sempre presente per dar vita a una comicità pulita da cui far scaturire un sano divertimento, non basato su doppisensi equivoci, su facili ambiguità o su grevi volgarità, che al momento magari strappano una risata ma che, poi, fanno vergognare di se stessi”.
Come definirebbe la recitazione?
“La recitazione è l’Arte suprema, il massimo dell’Effimero, una disciplina dell’Anima: ben lo sapevano i drammaturghi greci che con le loro tragedie consentivano la catarsi dei peggiori sentimenti dell’essere umano, purtroppo più incline all’odio che alla felicità. I tempi cambiano e l’evoluzione comporta mutamenti dell’estetica della vita ma non della sostanza; per questo ritengo importantissima l’educazione delle giovani generazioni – attraverso la famiglia, la scuola e – perché no? anche tramite il teatro – per delineare regole, un fil rouge di modelli di comportamento che ispirino un’autentica dirittura morale, aiutando i ragazzi a superare quella solitudine che spesso li spinge a fare branco, a esercitare sopraffazione, a perseguitare i deboli e lascia poi nei loro animi ferite profonde, quasi impossibili da rimarginare”.
Che consigli può dare agli attori più giovani?
“Devo precisare che per me recitare è una vocazione, un istinto che ho avuto sin da bambino e che mi ha portato a debuttare appena diciottenne in uno spettacolo di Tato Russo: avendo un’immensa sete di affetto – che perdura tuttora e che mi rende inquieto, quasi mai sereno, alimentando la mia creatività – ho scoperto che il palcoscenico è il luogo ideale per esaudire questo bisogno, grazie all’afflato con il pubblico. Posso dire ai giovani colleghi che devono partire dalla loro vita per realizzare il flusso creativo in un “unicum” con la rappresentazione artistica: ognuno di noi ha l’intero universo dentro di sé ed è lì che un vero attore deve attingere per trovare ciò che darà vita, spessore e coloritura al suo personaggio. Posto che è impossibile recitare veramente bene e che i momenti di finzione subentrano spesso a quelli di verità, l’attore deve avere ben chiaro che il suo lavoro è parte della vita e che, come tale, lui deve “ospitare” il personaggio, non diventarlo, compiendo un percorso in cui non deve smarrirsi ma in cui trovare, invece, un motivo superiore di condivisione emotiva, di apertura agli altri, per realizzare con il suo cuore un abbraccio ideale dell’umanità.”