Amarcord e qualche mito dal Sud Salento: quei grappoli bruni del Serrito

Per alcuni tratti del versante litoraneo fra Otranto e Santa Maria di Leuca, da cui si ha agio di godere dell’affascinante e un po’ misterioso connubio fra Adriatico e Ionio, le Serre salentine si protendono sotto forma di catene costiere: intendiamoci, nulla di più di semplici e modeste alture.
Forse, dalle Serre, la denominazione di «Serriti» attribuita, probabilmente a partire da epoche remote, ad una parte del feudo (o campagne) del mio paesello natio, ai confini con il mare.
La conformazione concreta di tali terreni, frammentati in piccole proprietà contadine, consiste in terrazzi degradanti, su più livelli, sino alla scogliera demaniale che sprofonda nelle limpide distese. Vi allignano, soprattutto, piante di ulivo, ficheti, carrubi e, infine, minuscoli fazzoletti di vigneti ad alberello.
Non si è in presenza di veri e propri strati coltivabili e continui, bensì di macchie, o cortili di humus (dal colore rosso particolarmente caldo) inframmezzati da ossature e spuntoni di dura roccia che emergono bassi e consistenti, ma si rivelano spesso anche interrati, rispetto alla superficie.
La densità dell’aria e la temperatura risentono di siffatta conformazione: man mano che si scende, si respirano e avvertono con sensazioni progressivamente più intense.
Pure Nonno Giacomo, genitore (in concorso con la mitissima e dolce Nonna Lucia) della mia povera mamma e di altri cinque figli, maschi e femmine, possedeva il suo «Serrito», non un podere qualunque ma una vera e propria costola, ovviamente dopo la famiglia, dei suoi interessi e dei suoi sentimenti.
Radici contadine, stazza consistente, baffi vivaci e grintosi, incarnato e pelle rosolati dal sole, mani forti e dure, personalità tosta, severo all’occorrenza ma di solito estroverso e giocoso nelle relazioni con gli altri, autorevole a modo suo, l’anziano uomo si muoveva a piedi (per trecento giorni all’anno, ovviamente scalzi) o tutto al più, quando gli toccava affrontare discrete distanze, in sella ad una vecchia bicicletta, mezzo con cui talvolta trainava una docile capretta, menandola, insieme con sé, verso qualche povero pascolo in campagna.
A capo di gruppi di operai i quali, stagionalmente, per quattro/cinque mesi complessivi all’anno, prestavano attività nei frantoi oleari (da frantoiani, appunto, e lì il coordinatore aveva il preciso appellativo, di incerta etimologia, di «nachiro») o negli stabilimenti vinicoli, il nonno si spostava dal paesello verso località del Brindisino, riuscendo in tal modo ad assicurarsi un salario anche in periodi che, a casa, sarebbero altrimenti stati «morti» e privi di entrate.
Questi i connotati di massima di Nonno Giacomo: ma, torniamo al suo «Serrito».
Quando non lavorava lontano da casa, era solito recarvisi pressoché quotidianamente, percorrendo, come ricordavo prima a piedi o in bici, circa sei chilometri tra andata e ritorno, in discesa e in salita.
Negli intervalli distanti dai raccolti, egli, con l‘aiuto dei due figli maschi, attendeva ad un’attività particolare, strana e anche un po’ pericolosa: praticando manualmente, mediante lunghe aste di perforazione, dei fori nel corpo degli spuntoni rocciosi e, aiutandosi con piccole e rudimentali cariche di polvere da sparo o mine, ne provocava lo sfaldamento, dopodiché passava allo sradicamento, con la sola forza delle braccia, di quelle rocce, che, si osservi bene, non venivano buttate via, bensì, ridotte in piccoli massi e pietre, erano utilizzate per rinforzare, rifare ex novo o sopra elevare i muretti a secco delimitanti la proprietà. Però, la finalità vera dell’operazione era di «guadagnare» qualche metro quadrato di terra su cui poter impiantare nuovi alberelli di vite: insomma, un far crescere «amorevolmente» il piccolo terreno agricolo.
Nel penultimo terrazzamento, ormai in prossimità della scogliera e del mare, esisteva una minuscola costruzione, una «caseddra», con muri e copertura di pietre aggregate a secco o appena saldate mediante un povero impasto di calce viva e terra rossa.
Nonno Giacomo si configurava alla stregua di personaggio «tosto», dicevo, e sicuro di sé, indubbiamente si era andato irrobustendo pian piano a cominciare dalla tenera età, sotto la spinta della povertà e del bisogno di rendersi precocemente utile, di divenire fonte di un qualche reddito.
Ho impressi nella mente certi suoi comportamenti, per così dire un po’ stravaganti, anche se di una semplicità, una naturalezza e un’ingenuità senza eguali, come il fare o «prendersi» il bagno nel mare del «Serrito», in compagnia del suo quasi coetaneo e confinante Peppe «u russu», in costume assolutamente adamitico: del resto, non credo che Nonno Giacomo abbia mai posseduto un costume da bagno, né, evidentemente, egli doveva giudicare opportuno immergersi con i normali mutandoni che, poi, avrebbero richiesto di essere risciacquati e lasciati al sole ad asciugare.
Ho memoria, anche, di una sua caduta, in paese nei pressi di casa, dalla bicicletta, scivolata su un sottile strato di neve ghiacciata (eccezionalità per il Salento), con la conseguenza di una leggera menomazione agli arti inferiori che gli rimase per sempre.
Ma, in queste righe, desidero mettere a fuoco soprattutto la figura del mio progenitore giustappunto nel suo rapporto col «Serrito» e, in particolare, con la modesta estensione a vigneto lì esistente.
Nonno Giacomo era geloso, morbosamente geloso, dei suoi alberelli di vite: li accudiva con le migliori cure in tutte le fasi della coltivazione, dando l’impressione di accentuare oltremodo il trasporto, l’ansia e la premura verso quelle piante nel mentre si approssimava la formazione e la graduale maturazione dei grappoli d’uva.
Vietato a chiunque di avvicinarsi ai «cippuni», guai a sfiorare o toccare o cogliere qualche grappoletto che poteva parere già «pronto»; Nonno Giacomo si ergeva, per tutta la giornata, e in estate anche di notte fermandosi a dormire nella richiamata caseddra di pietre, a custode e guardiano ferreo della sua vigna.
Ad essere sinceri, man mano che l’uva incominciava ad essere mangiabile, egli soleva, di sua iniziativa, recidere i primi grappoli e, un panierino per volta, al rientro la sera in paese con la bici, li dispensava ora ad una e ora all’altra delle figlie sposate, fra cui mia madre. Sussulti di generosità, quindi, ma fino ad un certo punto.
Però, quando esordiva il mese di agosto, arrivava a scattare un evento straordinario: all’epoca, le stagioni si snodavano costanti, le previsioni meteorologiche si potevano fare a naso, cioè senza bisogno di satelliti o di esperti, tipo Giuliacci, sicché Nonno Giacomo era in grado di indicare, con sette e anche dieci giorni di anticipo, la data in cui si sarebbe proceduto al raccolto, o meglio alla vendemmia, dell’uva del «Serrito».
E coinvolgeva in tale evento non solo moglie, figli, figlie, generi e nipoti, ma parimenti fidanzati e fidanzate dei ragazzi ancora in casa, insieme con le relative famiglie al completo, oltre a qualche suo anziano fratello e ad altri congiunti. In definitiva, venticinque-trenta persone, chiamate tutte a convenire al «Serrito» nel tardo pomeriggio della vigilia della vendemmia.
Piccola e festosa adunata campestre.
Ecco il rito di quella cena allargata, come mai succedeva durante l’anno, frugale, molto alla buona; solamente una volta, ricordo, solennizzata con la cottura e la distribuzione in porzioni sufficienti di una gigantesca piovra che, il giorno prima, mio padre, mentre faceva «prendere» il bagno a me ed ai miei fratelli, era riuscito ad agguantare da una buca sul bagnasciuga erboso della vicina Marina dell’Aia ed a sbattere sugli scogli (autentico eroe di genitore, sebbene all’inizio un po’ esitante).
E dopo il frugale pasto, frammenti di conversazioni e di allegre risate e, quindi, tutti a nanna: pochissime persone, fra cui Nonna Lucia, mia madre ed una zia sposata, unitamente a qualche pargolo, all’interno della caseddra, tutti gli altri all’aperto, distesi a terra su stuoie (zinzuliere) sotto le chiome degli alberi. Rammento che a coricarsi così si stava da Dio, le stelle in alto sembravano voler sussurrare qualcosa, la temperatura era molto mite, accarezzava la pelle e quasi accompagnava il sonno, l’aria si annusava pulitissima e profumata.
Ci svegliava l’alba, prima ancora che sorgesse il sole: tutti riposati e rinfrancati, pronti per l‘opera. In un baleno, venivano distribuiti coltelli e forbicine e subito il solenne via alla vendemmia proclamato da parte di Nonno Giacomo con la precisazione ad alta voce: «Ora potete mangiare tutta l‘uva che volete!».
In verità, bastava poco per riempire dei panierini di vimini che man mano venivano svuotati in più grosse «panare» fatte dello stesso materiale, a loro volta portate a spalla dagli adulti su, per il sentiero in salita sino alla strada litoranea, dove, intanto, era giunto e stazionava un traino con due botti che avrebbe portato il prodotto in paese, sino al palmento, per il processo di trasformazione dei grappoli in mosto e l’avvio della fase di vinificazione.
Tre – quattro ore e la vendemmia, ancor prima che i raggi del sole assumessero l’effetto rovente del mezzogiorno, risultava già ultimata.
A quel punto, il piccolo esercito di umanità, indistintamente fra grandi e piccoli, avvertiva e serbava intimamente un senso di profonda soddisfazione per aver vissuto il tanto atteso rito dell’abbuffata e del taglio dei grappoli del «Serrito». La cerimonia si concludeva del tutto con il tonificante bagno nelle antistanti acque cristalline e corroboranti e, a seguire, ognuno, per suo conto, rientrava a casa e alle proprie cose.
Il vino ricavato dalla vigna del «Serrito», Nonno Giacomo lo utilizzava con cura, esclusivamente per il fabbisogno della famiglia, nel corso dell’intero arco dell’anno: perciò quella bevanda scura, quasi nera, segnava, allietando i palati, tutte le ricorrenze solenni, dal Natale al Capodanno alla Pasqua alla festa di S. Vitale. In tali occasioni, Nonno Giacomo invitava a casa sua i familiari e anche i nipoti come chi scrive, e si poteva assistere alla mescita del nettare da bottiglioni che recavano infilati nel collo rametti di finocchio: un rudimentale ma efficace tocco di profumo aggiuntivo al già olezzante liquido.
Ancora vivente, Nonno Giacomo, in uno con qualche altra sua piccola proprietà, donò il «Serrito» ai figli; per la precisione, una parte del fondo è stata successivamente venduta a terzi, esattamente ad una nobildonna della zona (madre del regista cinematografico Eduardo Winspeare), la quale vi ha costruito una grande villa.
In tale residenza, si è trovata a trascorrere le vacanze estive, per almeno una quindicina d’anni, l’attuale famiglia reale belga; cosicché, in un mattino d’agosto, la regina Paola, allora principessa, si avvicinò ad un mio zio, il quale, da parte sua, aveva conservato la proprietà della rispettiva quota del «Serrito» ed anzi aveva tirato su una moderna casetta di villeggiatura, in parte utilizzando e ristrutturando la vecchia caseddra di pietre, domandandogli se fosse d’accordo a venderle il fondo, intenzionata a realizzarvi un’altra villa per la sua famiglia. Ovviamente, il predetto zio, pur con il sorriso sulle labbra, declinò la proposta dell’augusta e bellissima signora.
Ho cercato di rievocare un piccolo spaccato di tempi lontani, tempi che, ad ogni modo, sento tuttora giovani, attivi e vivi dentro di me.
Anche adesso, ogni volta che costeggio con la mia barchetta a vela la scogliera prospiciente il «Serrito», succede come se compissi un tuffo all’indietro, mi si affacciano agli occhi volti, voci ed avvenimenti che hanno lungamente ed intensamente segnato la mia infanzia e la prima spensierata giovinezza.
E, autentica chicca in fondo ai presenti ricordi, mi viene in mente anche il fugace transito lungo il nostro tratto di litoranea, nell’ottobre 1959, a bordo di un’autovettura di lusso, dell’avvenente principessa Soraya, già Imperatrice di Persia, la quale era stata da poco ripudiata dallo Scià per non essere riuscita a dargli un erede al trono.
Ieri, in un contesto di maggiore e più vera semplicità, per il nostro comune sentire esistevano anche dei miti, grandi e piccoli: invece, oggigiorno, tutto è purtroppo divenuto diverso.

 

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