Editoria: All’estero vanno veloce e l’Italia resta indietro
Tiziano Ferro cantava “l’amore va veloce e tu stai indietro”, chissà riferendosi in realtà alla situazione dell’editoria italiana. Si perché qui, più che “colpi al cuore”, mancano proprie le basi per impostare una rivoluzione giornalistica in quel Belpaese che rappresentava il fiore all’occhiello in tutto il mondo anni fa, e che ora invece rischia di soccombere sempre di più sotto i colossi esteri. Esempi? Ce ne sono ben due: il The Guardian anglosassone e l’americano The New York Times.
Il primo ha chiuso il bilancio annuale in utile dopo due decenni di rosso, grazie non alla pubblicità ma alle libere sottoscrizioni dei lettori. Se si pensa che i giornali tradizionali hanno avuto una crisi con il boom di Internet, subito ci si rimanda al più grande paradosso della vendita: come si può guadagnare se la domanda di informazioni è in ribasso e allo stesso tempo il Paywall presenta parecchie alternative gratuite? La risposta sembrerebbe arrivare da una competizione al ribasso, dove il crollo degli utili degli editori si traduce in un taglio del costo del lavoro, deteriorando anche irrimediabilmente la qualità dei contenuti. Presto i limiti del contenuto online riservato agli abbonati, di fatto, ha mostrato i suoi limiti: il modello di business sostenibile e compatibile con la rivoluzione digitale è caduto quando si è visto sbattere in faccia la cruda verità del ‹‹neanche la testata più prestigiosa al mondo può sperare di avere una sufficiente base strutturale di lettori online a pagamento››. Parola di Katharine Viner, direttrice del colosso editoriale di Manchester, che ha indovinato il trucco per ricavare un utile operativo senza ricorrere al Paywall e raggiungere altri giganti dell’editoria come il Financial Times, facendo bingo: un libero invito a donare, con la possibilità di una sottoscrizione fissa e periodica, al quale hanno aderito abbastanza lettori da costituire oggi il 47% del fatturato. Un caso talmente unico da essere molto difficilmente replicabile. Molti potrebbero pensare alla bravura di un equipe ben disposta a voler finalmente tirare acqua al proprio mulino senza dover ricorrere a secchielli bucati sul fundo. Ma le ragioni di questo successo in realtà risiedono in due motivazioni abbastanza semplici: l’utilizzo di una lingua universale come l’inglese che arriva a offrire un servizio puntuale e unico a circa due terzi del totale dei lettori mondiali. L’assoluta indipendenza da qualsiasi simpatia politica o interesse sociale che dal 1936 la rende storica voce progressista della stampa britannica. E l’utilizzo della strategia “Longterm”, formato che viene considerato improponibile sul web ma che rappresenta il calcio di rigore segnato dal Guardian: nonostante la soglia di attenzione bassissima, il lettore del giornale vedere lo sforzo del giornalista e arrivare persino a pagare pur di ricevere contenuti di qualità.
Una lezione per tutto il settore? Fino a un certo punto. Perché a quanto pare l’altro colosso ad averne beneficiato è stato il New York Times, che ha trasformato il suo giornalismo di qualità, è riuscito ad invertire la rotta e a riportare i bilanci societari in nero. Nel 2018 il gigante newyorkese ha generato 709 milioni di dollari di ricavi solo dal digitale: più di 3,3 milioni di persone pagano ogni anno per avere accesso ai prodotti digitali, alle notizie, ai cruciverba fino alle app sul food. ‹‹Non fare nulla o essere timidi nell’immaginare il futuro significherebbe rimanere indietro›› ha riferito Dean Baquet, il primo direttore afroamericano durante il piano di rilancio al 2020. Dall’altra parte, anche la pubblicità digitale è cresciuta dell’8,6%, a 259 milioni di dollari: per la prima volta nella storia della società, nel quarto trimestre, il “digital advertising” ha superato per ricavi la pubblicità dell’edizione cartacea. ‹‹Il nostro successo con gli abbonati e con i migliori inserzionisti pubblicitari dipende più di ogni cosa dalla qualità del giornalismo›› ha scritto in una nota il ceo Mark Thompson. ‹‹Ecco perché abbiamo aumentato, piuttosto che ridurre, i nostri investimenti nelle redazioni dedicate alle notizie e nella sezione dei commenti e delle opinioni. Vogliamo accelerare ulteriormente la nostra crescita digitale, quindi nel 2019 indirizzeremo nuovi investimenti nel giornalismo, nel prodotto e nel marketing››, ha concluso l’amministratore delegato. Dato non tanto ricorrente ma che fa ben sperare per le future generazioni di giornalisti è quello relativo alle assunzioni: Lo scorso anno il New York Times ha assunto 120 persone nella sua newsroom, portando il numero totale di giornalisti a 1.600, il più elevato di sempre. Ed è un bel segnale per il gruppo ma anche per tutto il settore dell’editoria “tradizionale”, che parla finalmente di un’inversione di tendenza. Anche qui, così come nel Guardian, la ricetta principale è stata quella di puntare al giornalismo di qualità: ogni articolo scritto dal New York Times è un articolo scritto solo dal New York Times, e non un dispaccio di agenzia di stampa. È un approfondimento, un’opinione, con i contenuti multimediali presenti, che offre sempre qualcosa in più, così da differenziarsi dal fiume insipido delle news in real time. Inoltre, il quotidiano newyorchese continua a investire sul giornalismo investigativo, sulle inchieste, con uomini e mezzi: continua a investire sui contenuti multimediali negli articoli digitali, sulle nuove modalità di storytelling, sui video e sulla tv. E in ultimo sui podcast audio delle news, e quelli tematici a puntate, molto apprezzati dai lettori digitali.
La qualità paga. E anche i loro lettori, come dimostra il caso del New York Times, nell’era del sempre connessi e delle informazioni che ci rincorrono in ogni istante, sono disposti a pagare per avere accesso a un giornalismo davvero di qualità.
E l’Italia? La vendita dei quotidiani nel 2018 crolla del -8% e negli ultimi 4 anni sono state dimezzate le copie vendute in edicole. Questo è il tragico, seppur veritiero, dato che affligge l’editoria italiana: a certificare lo stato dei fatti è la Relazione annuale dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni presentata alla Camera dei deputati. Guardando all’intero periodo considerato che va dal dicembre 2014 al dicembre 2018 le copie giornaliere complessivamente vendute cartacee dai principali editori si sono ridotte del 31%, scendendo da 2,7 a 1,8 milioni di unità. Negli ultimi 5 anni i principali otto grandi editori italiani hanno cumulato perdite nette per 1,2 miliardi e solo Cairo Editore ha chiuso il periodo in positivo con 38 mln. Non tutto però è negativo: nel 2017 alcuni gruppi sono per fortuna in miglioramento: in particolare, Rcs ha fatto registrare un utile netto di 71 milioni, la Mondadori utile di 30,4 mln ed Il Sole 24 Ore di 7,5 mln. ‹‹Le risorse economiche del complesso dei mercati vigilati da Agcom ammontano a oltre 54 miliardi di euro, confermando il trend di lieve crescita (+1,2%) già osservato lo scorso anno. Cresce il peso relativo di Internet, del settore postale e, in misura meno accentuata, del settore telecomunicazioni. Tende invece a ridursi, anche se con un diverso grado di intensità, il peso degli altri comparti vigilati, ossia tv, radio ed editoria”, ha spiegato Angelo Marcello Cardani, presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Sul fronte della rete, Internet cresce come mezzo di informazione oltre che come veicolo pubblicitario. ‹‹Tuttavia››, osserva lo stesso Cardani, ‹‹l’attendibilità percepita delle fonti informative online, come testimonia la nostra ultima ricerca sui consumi di informazione, rimane mediamente inferiore rispetto a quella delle fonti tradizionali. Altro elemento interessante consiste nella tendenza degli italiani ad accedere all’informazione online prevalentemente attraverso fonti c.d. algoritmiche, in particolare social network e motori di ricerca”.
Occorre profondamente riproporzionare il nostro modello giornalistico e puntare a quello anglo-americano, a cui dobbiamo guardare per trarre tutto il meglio, ed imparare un semplice concetto: fare giornalismo non vuol dire concentrarsi sui fatti di “gossip” e ricerca ossessiva-compulsiva del “click baiting” on-line, sebbene sulla notizia di qualità, sempre e comunque. Come dice Tiziano Ferro in un’altra sua canzone “imparo lento e sbaglio veloce”. Chissà che davvero l’editoria italiana era nei suoi pensieri al momento di scrivere i suoi pezzi. Chissà se davvero questa strofa si trasformerà mai in un “imparo veloce e sbaglio mai”.