Viaggio a Taranto, per antiche rotte

Nessuna confusione fra terra e mare, nella circostanza il “veicolo” non è una barchetta a vela, bensì un’autovettura Golf. L’accezione “rotte” sta, dunque, semplicemente per percorsi stradali e, però, non aderenti alle direttrici più scorrevoli e veloci solitamente seguite adesso, ma ricalcanti le tratte d’una volta, quelle coperte dai meno consistenti eserciti di automobili di una sessantina d’anni addietro.
Correvano i tempi delle nutrite migrazioni stagionali, dalle plaghe del Basso Salento, o Capo, verso gli ampi tratti di terreni pianeggianti, qua e là irrigui, ubicati fra il confine a ovest dell’agro tarantino e l’attigua provincia di Matera, specie sulla fascia costiera prossima allo Ionio, da Metaponto a Nuova Siri.
Lo scopo dei “cafoni” che si spostavano era di attendere, in regime di mezzadria, a rilevanti campagne o programmi di coltivazione del tabacco, iniziative, con annessi patimenti e sacrifici, indispensabili per riuscire a dare una dote alle figlie femmine e a tirar su l’abitazione, o “fabbrico”, per i maschi.
In genere, i primi a lasciare il Tacco, fra gennaio e febbraio, erano i capi famiglia, accompagnati da uno o due figli, i quali si occupavano della preparazione dei vivai (ruddre), con la caratteristica e immancabile abitudine di mettere a dimora, sui morbidi rialzi perimetrali, centinaia o migliaia di piantine di lattuga, che, una volta cresciute, avrebbero conferito un non trascurabile contributo alle occorrenze della tavola e/o della stessa dieta alimentare.
Ma il processo emigratorio di maggiore portata, coinvolgente gli interi nuclei con il conseguente completo svuotamento delle case salentine, aveva luogo a fine aprile, quando occorreva provvedere alla piantagione del tabacco, alla successiva “sarchiatura” e, dopo di che attendere la crescita e la maturazione, effettuare la raccolta delle foglie in più serie o fasi (la 1^, la 2^, la 3^ e la 4^), curarne man mano l’infilatura e la lenta essiccazione sotto il sole, sino al confezionamento dei “chiuppi”, appesi ordinatamente al soffitto di grandi capannoni coperti e arieggiati, nelle more dello stivaggio della preziosa materia prima in capienti casse di legno a strisce, da consegnarsi o conferirsi agli opifici o manifatture o magazzini per la lavorazione finale.
Le famiglie trascorrevano, così, nelle loro nuove residenze, di Ginosa, Metaponto, Pisticci, Bernalda, Marconia, Montalbano Ionico, Scanzano, Policoro e Nuova Siri, una parentesi di tre – quattro mesi, rientrando nei paesi d’origine intorno a Ferragosto.
I mezzi di trasporto per così tanta gente erano rappresentati da grosse autovetture Fiat o Lancia di modello famigliare, talora con l’aggiunta, all’interno, di sedili supplementari e precari, onde accogliere addirittura 8 – 10 viaggiatori, il portabagagli sul tetto carico a dismisura, un enorme volume di scatole, cartoni, bisacce, borsoni e pacchi oltremodo ragguardevoli: d’altronde, era l’intero focolare domestico che si muoveva.
I padroncini, o noleggiatori o autisti che operavano principalmente con tale categoria di trasferte, preferivano mettersi al volante di notte o nelle primissime ore del mattino, così da incontrare, almeno in parte, scarso traffico e, insieme, per tentare di scansare le pattuglie della Stradale o di altre forze dell’ordine, che spesso, intimando l’alt ai mezzi strapieni e sovraccarichi, passavano a compilare verbali e a infliggere multe.
Questi viaggi della speranza o, più precisamente, del tabacco si svolgevano invariabilmente lungo il medesimo itinerario: Maglie, Cutrofiano o Corigliano, Galatina, Galatone, Nardò, Avetrana, Manduria, Sava, Fragagnano, Monteparano, S. Giorgio Ionico, Taranto e, per continuare, lungo la statale 106, sino a Ginosa eccetera. La tabella di velocità segnava da 60 a 90 chilometri orari, unica breve sosta intermedia a Sava.
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Stamattina, approfittando anche, finalmente, della bella domenica, ho volutamente scelto di ricalcare fedelmente la mappa delle sopra richiamate, ormai lontane, spedizioni lavorative.
Dopo Maglie, ecco Corigliano d’Otranto, nota per il maestoso Castello De Monti e il secolare e grazioso Arco Lucchetti.
Personalmente, ogni volta, sono portato ad associare detta località alla figura di due donne, recanti in comune il nome di Teresa, che molte stagioni fa sposarono due marittimesi, entrambi con il diploma di geometra, il primo un po’ più grande, il secondo quasi coetaneo, intimo amico e pure parente di chi scrive. Purtroppo, solo le signore sono ancora presenti: la Teresa giovane, la incontro raramente, giacché risiede fuori, mentre l’altra, che da ragazza era particolarmente bella, la scorgo spesso nella sua villetta di fronte al mare e, sebbene versi attualmente in condizioni fisiche precarie, giammai ella manca di mandarmi un saluto con la mano e di accennarmi un sorriso di buon ricordo.
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Fase assai suggestiva del viaggio, è il segmento di oltre venti chilometri fra Nardò e Avetrana, in corrispondenza delle estensioni che, un tempo, rappresentavano il latifondo dell’Arneo, contraddistinto da una folta macchia mediterranea, spesso zona di rifugio di bande di malintenzionati, predoni o grassatori se non proprio briganti, al punto che le carovane in movimento, a bordo di traini con le alte ruote a raggi sospinti da cavalli, curavano di evitare di percorrere il tratto al buio, salvo, in ogni caso, raggrupparsi per meglio fronteggiare eventuali brutti incontri.
Adesso, chiaramente, per fortuna, di briganti, almeno di quel genere, non ve ne sono in giro. Fra Nardò e Avetrana è sorto un villaggio o borgata, Boncore, dotato, fra l’altro, di un apprezzato ristorante: alla sua altezza, verso ovest, fanno capolino le distese dello Ionio.
Ecco, quindi, Avetrana, paesone o cittadina con oltre diecimila anime, gli abitanti che usano tuttora trattenersi in piazza a conversare, la chiesa parrocchiale con la torre campanaria che, alla sommità, presenta due distinti atipici elementi architettonici.
Nell’occasione, il guidatore che scrive non può limitarsi ad attraversare la località e proseguire, sente il bisogno di una breve sosta: al camposanto, proprio all’ingresso, si affaccia un piccolo monumento sotto forma di aiuola fiorita con, al centro, l’immagine del volto sorridente di una quindicenne e, confesso, non è possibile incrociare quegli occhi senza essere presi da pensieri e riflessioni.
Prima e dopo Avetrana, si sussegue un vasto comprensorio di ex cave, da cui, un tempo, si estraevano ingenti quantitativi di tufi o conci o piezzi, adoperati per erigere abitazioni e capannoni.
Ciò che resta, oggi, di tali mastodontiche buche, è l’impatto con le pareti altissime, evidenzianti sommari reticolati a righe, in corrispondenza dei singoli cilindri tufacei estratti durante l’attività delle cave. Si nota, in aggiunta, che, in molti casi, sul fondo degli scavi sono stati immessi grossi strati di fertile terra rossa e creati uliveti e/o altre coltivazioni, quasi che, in luogo della sostanza naturale asportata, si fosse voluto generare nuove linfe di vita.
Superata Avetrana, si snodano altri centri già conosciuti dall’osservatore di strada nei suoi primi anni di lavoro in banca a Taranto. Nonostante i decenni trascorsi e i diffusi cambiamenti, taluni particolari sono rimasti intatti: il ricordo vivo della nobildonna, cliente, di Manduria, il palazzo/castello di un facoltoso cliente a Monteparano, la villa, oggi come allora tinteggiata di color rosso melograno, di un altro signore in rapporti con la banca.
Oltrepassata S. Giorgio Ionico, non rimane che la lieve discesa verso il capoluogo, affascinante con i suoi magnifici due mari, ma, nello stesso tempo, come è noto, portatore, sotto vari aspetti, di un’assai delicata e complessa realtà.
Intanto, il viaggio è giunto alla meta, avviene l’incontro con uno stuolo di parenti e, insieme con loro, lo svolgimento di un interessante convivio famigliare a base di freschissime orate appena pescate in Mar Grande.

 

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