Dal Salento: immagini, pensieri e parole, in uno sciroccoso giovedì


Anche la scorsa notte è stata contraddistinta dal tintinnio della pioggia, a tratti confuso e/o intervallato con gli arrabbiati sibili dello scirocco.
Stamani, invece, per fortuna, residua solo il grigiore del cielo, una cappa, oltretutto, non compatta, bensì chiazzata di frammenti di timido azzurro, delimitati da nubi più o meno spesse. A differenza delle odierne temperature lette con riguardo al Nord, qui non fa per niente freddo, alle otto il termometro segna già un gradevole più dodici, valore destinato in breve ad accrescersi sino a quindici.
La scarrozzata a bordo della mia veterana Golf in direzione Marittima e Castro è agevole e tranquilla, nessun bisogno di premere sull’acceleratore, in giro non ci sono tantissimi veicoli e perciò, nell’arco della solita mezz’oretta, raggiungo la mia villetta del mare, che sarebbe più giusto, invero, qualificare come abitazione di una buona metà dell’anno, che si erge aggraziata sul fondo denominato Pastorizza.
Senza che la residenza nel capoluogo sia da disprezzarsi, tutt’altro, starsene al paesello, ai margini della rigogliosa pinetina, con il mare sul breve orizzonte, quando non a portata di mano, è, tuttavia, proprio un’altra cosa.
Secondo il rituale, via al giaccone e alle scarpe della città per infagottarsi in una giacca a vento blu, che ormai veleggia intorno alle trenta stagioni, e calzare scarponi campagnoli.
Difatti, la prima azione che ho da compiere nella presente trasferta marittimese è di recarmi alla Marina ‘u tinente, onde controllare se, dopo le recenti intemperie metereologiche e il forzoso abbandono protrattosi per circa due settimane, sia rimasta in piedi qualche traccia delle mie verdure, preziosità mangerecce che, in quest’occasione, conto di raccogliere completamente e definitivamente.
Pure il veicolo che adopero per andare a sbrigare detto servizio subisce un cambiamento, nel senso che, parcheggiata la Golf nella pinetina, mi metto al volante della mia mitica cinquecento, immatricolata nuova nell’anno 1966; come temuto, stenta a partire, quest’ultima, la sosta invernale prolungata, ancorché all’interno del garage, non le torna congeniale o gradita, la batteria, in particolare, si riduce ai minimi termini, mi tocca, giocoforza, ancora una volta, spingere il mezzo, a mano e con le braccia, sino alla strada provinciale oltre il cancello, fortunatamente il tratto è in discesa, non è poi una grande fatica.
Comunque, in tal modo, la minuscola e carinissima utilitaria riprende vita, inizialmente con qualche singhiozzo, ma il vecchio automobilista non esita, non si scoraggia di fronte alle imperfezioni del motore, dirigendosi, risoluto, a percorrere, accomodato nello stretto abitacolo, la strada litoranea Castro – Tricase che, è impossibile non sottolinearlo, è un autentico incanto naturale.
Forse a causa della giornata non bella, in aggiunta a una certa costante tipica della stagione invernale, lungo il tratto non si scorge anima viva, salvo un caso unico e isolato.
In concreto, a un certo punto, all’altezza di Porticelli, noto due amici e compaesani, Giovanni e Rocco, i quali, impegnati, come accade sovente, a svolgere qualche lavoro insieme, si trovano seduti su un piccolo scoglio, al confine fra un appezzamento di terreno e la litoranea in discorso, intenti pacificamente a consumare, secondo il costume campagnolo, la loro frugale e leggera colazione.
La sequenza, è di una sorta di film familiare che, senza bisogno di fermarmi, mi riempie dentro di una bella immagine, antica quanto si vuole e però sempre carica d’indicativi contenuti di semplice e sana umanità.
Oltrepassate le figure di Giovanni e Rocco, di lì a poco guadagno la mia meta ossia, la Marina ‘u tinente. Provvidenzialmente, ecco le mie ultime rigogliose pianticelle di cicoria, che sradico agevolmente, e una serie di minuscoli e teneri residui germogli di cavoli e rape.
Non impiego molto e due sacchetti di plastica sono ben riempiti, ad abundantiam integro il relativo contenuto con alcuni profumati rametti di rosmarino, arbusto di cui la predetta marina abbonda, sotto forma, addirittura, di una serie di vere e proprie siepi, in tal modo la contentezza della padrona di casa, al mio rientro a Lecce, sarà più completa.
Fatto ciò, ulteriore incombenza agricola, passo a spargere piccole manciate di fertilizzante organico ai piedi delle piante di cavolo, sì da sostenerle e irrobustirle ai fini della maturazione di ulteriori serie di germogli, nonché intorno a quattro talee di fico messe a dimora un anno fa, nella parte mediana della marina, nei pressi della vecchia e semi diroccata pajara, realizzata esclusivamente con pietre a secco.
Mentre vado attendendo a tali lavoretti, ho anche modo di guardarmi tutt’intorno, lo scenario o palcoscenico, in barba al grigiore dell’odierna giornata del mese corto, è attraente e coinvolgente, e ciò, non unicamente per la maestosità della distesa che, qui, fa da spartiacque fra Adriatico e Ionio, distesa, nella circostanza, non tranquilla, anzi assai movimentata da onde cavalcanti, residuo dei soffi dello scirocco che, è noto, non si evaporano ed esauriscono d’un tratto, ma persistono in genere, purtroppo, per tre giorni.
Insomma, mare a parte – che, come sempre, m’induce a riflessioni sull’ infinito e su orizzonti d’immensità, ancorché, da questa postazione, gli occhi abbiano talora agio di cogliere le delimitazioni delle coste meridionali dell’Albania e delle prime più vicine isole greche – anche semplicemente percorrendo o scalando i terrazzamenti della Marina ‘u tinente si ha la sensazione di vivere in una sorta di scenario surreale.
Nell’odierna circostanza regna un silenzio ben più assoluto del consueto, le stesse foglie dei giovani ulivi si muovono appena, non turbano la quiete, le familiari, diffuse tribù di lucertoline sono scomparse, verosimilmente rintanate all’interno delle buchette o orifizi che fungono da loro case, nemmeno un animaletto a far capolino e/o a guizzare sulla terra rossa o fra uno scoglio e l’altro.
Vie più precisamente, la solitudine e l’atmosfera ovattata dell’ambiente sono rotte, per un attimo, attraverso il fruscio momentaneo e il volo veloce d’un simpatico pettirosso che, in barba all’inclemenza della giornata e all’aria sciroccosa, non ho inteso saltare i suoi appuntamenti sui rametti di un sontuoso arbusto di mirto, per cibarsi piluccandone i minuscoli e gustosi frutti bruni.
Dicevo solo un baleno e, quindi, mi ritrovo lì unico essere vivo, appena accompagnato dai miei stessi passi, lungo il sentiero improprio e irregolare che mi riporta al terrazzamento più basso, a ridosso della strada provinciale.
Monto, lesto, sulla cinquecento per raggiungere la villetta circondata da pini, dimora permanente nella bella stagione e che, mi piace ricordare, è a lungo arricchita e rallegrata dalla presenza di figli e nipotini.
Oggi non mi va di restare da solo a Marittima e, perciò, intorno alla mezza, riprendo la Golf per far ritorno a Lecce.
Analogamente all’andata, un viaggetto lampo, quasi a occhi chiusi, si fa per dire, che ha sempre una sua speciale caratteristica: nel senso che, salvaguardando beninteso l’attenzione alla guida, mi lascia nella mente angoli di spazio per rivivere l’atmosfera delle ore trascorse fra Pastorizza, pinetina, Marina u tinente, nei panni di novello eremita del terzo millennio, in prossimità del mare sempre accattivante, anche quando non è azzurro ma grigio, non disteso e calmo ma imbronciato.
Trascorrono le stagioni, inevitabilmente, pure in capo al ragazzo di ieri, tuttavia il cammino lungo l’attuale tratto esistenziale non è affatto malinconico o spento, ma al contrario perennemente intriso di vivacità eccezionale, quanto a puntuale cattura d’immagini e a cascate di piccole emozioni. Esso ha il pregio di lasciarmi attivi e vivi, dentro, segni e sentimenti d’ideale gioventù.
In termini diversi, la somma degli anni si fa ineluttabilmente più consistente da un almanacco all’altro, almeno sul fronte anagrafico, ormai è divenuta ampiamente indicativa. Nondimeno, mi sembra di avere la fortuna o il privilegio di non cedere passivamente al tempo, di non preoccuparmi circa le dimensioni dell’arcobaleno che ancora sono capace di scorgere, con i suoi accattivanti colori, sulla volta azzurra.
Mi limito a pormi la domanda se siano grandi o piccole, ma non mi importa se la risposta possa essere affermativa o negativa in un senso o nell’altro.
Intanto il ragazzo di ieri, oggi comune narratore, vive e interpreta ogni singolo quotidiano risveglio alla stregua di un nuovo traguardo, se non proprio di una nuova vittoria, lungo l’arco dell’orizzonte definitivo a lui predestinato

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