Chiamiamoli “Women-icidi”, così almeno fanno meno paura!

Uccise. Da mariti, fidanzati o spasimanti, ma pur sempre violentate. Da rapinatori o da uomini semplicemente violenti, per motivi futili o per far dimenticare loro il volto della bellezza del mondo, ma ancora e continuamente maltrattate.

Da un mondo che non prestava loro la giusta attenzione verso l’eccessivo buonismo visto negli occhi di chi invece non merita neanche un pizzico di quella stessa tolleranza, da una pesantezza che non ha fatto altro che aumentare nel tempo un carico enorme sulla schiena di combattenti anche fin troppo martoriate da una guerra mai realmente terminata, ma pur sempre falcidiate da una incomprensione da parte delle autorità a dir poco “eterna”. Ed è così che Isacc Asimov affermava che «la violenza è soltanto l’ultimo rifugio degli incapaci», consapevole che la stessa, compromessa a tal punto da sembrare qualcosa di più grande e troppo “impossibile” da superare, tocca il limite massimo della sua decenza nel momento in cui «si distrugge l’energia essenziale della vita su questo pianeta e si forza quanto è nato per essere aperto in modo fiducioso, caloroso e creativo»; di parere simile, ma con connotazioni alquanto diverse, era Giles Vigneault, il quale sosteneva a voce alta l’incapacità dell’essere umano di mettere un freno deciso e determinato a quell’istinto animalesco che per secoli ha segnato l’inizio di un “inferno umano”, fatto appunto di una «tenebra che non può scacciare la tenebra stessa» e di un ammortizzatore mai davvero messo alla prova nella sua opera di “rinascita” dalle ceneri di una “virilità poco virile”. Ma se questo spettacolo macabro messo in scena in un contesto altrettanto raccapricciante non accenna ad insegnare quel “rispetto” necessario a rafforzare la figura femminile e persiste nel ritagliarsi “minuti di silenzio” che alimentano una malattia oramai ancorata nell’”istinto ignorante” dell’essere umano, come può il rosso essere ancora il colore dell’amore senza trasformarsi in “viola tumefatto”? Negli ultimi dieci anni sono 1740 i casi di femminicidio, un numero tanto spaventoso quanto estremamente vicino ad una realtà troppo diabolica per essere giustificata: si parla di movente passionale? “Allora se l’è cercata”, sosterrebbe l’”unanimità maschilista” pronta a difendere più che condannare il crimine più grande della debolezza maschile; si tratta di pura istintualità non gestibile? “Non aveva scelta”, azzarderebbe il cuore di chi non ha accennato un secondo a nascondere le prove di un amore sbagliato, coerente con l’illusione di una guarigione ridotta alle briciole; si prospetta un aumento di omicidi? “E’ il momento di dire basta”, imporrebbe decisamente la voce della coscienza, la stessa con la quale un tragico bilancio può essere fermato, una feccia di fattori negativi al coinvolgimento attivo della paura può essere diminuita, un baluardo della “giustizia femminile” può essere finalmente aggiornato alle tempistiche moderne, ghettizzando un problema da affrontare alle radici e da combattere fino alla sua punta dell’iceberg.

La denuncia più esplicita del Femminicidio a Budapest
La denuncia più esplicita del Femminicidio a Budapest

Così, se la speranza di avere un “anno di tregua”, in mezzo ad un vortice troppo grande per essere interrotto, era viva nelle storie di tutte le superstiti che hanno raccontato di una vita irrimediabilmente perduta ma ancora capace di essere trasformata da quei piccoli miracoli quotidiani che solo l’amore vero può dare, quella che ne è uscita trionfante ancora una volta è stata l’amarezza di essersi arresi di nuovo “al rosso del sangue, piuttosto che a quello della dignità”. I volti sembrano volatilizzarsi mentre il colpo di una pistola scatta, le lacrime di disperazione si credono inutili nel momento stesso in cui una mazza colpisce quello che solo la fantasia criminale potrebbe arrivare a distruggere, gli occhi tremanti volano già in paradiso, perché rimanere su una terra che non li merita viene considerato un peccato troppo grande da colmare con il perdono: «Quante ancora ne devono morire perché il Governo si renda conto che le risorse economiche, i mezzi e le attività di contrasto alla violenza di genere sono del tutto insufficienti? Quante donne, ragazze, madri, figlie, sorelle, amiche dobbiamo vedere massacrate da ex, diventati mostri e assassini, prima che vengano prese decisioni e attuate politiche attive idonee ad un problema sociale enorme come quello della violenza sulle donne?» denuncia Gabriella Moscatelli, presidente di Telefono Rosa, che lancia l’hashtag #quanteancora per evitare uno scempio divenuto oramai imminente. Assuefazione alla “droga delle mani pesanti”? Non proprio; persone “normali” reinventate “assassini rosa” di una realtà commestibile solo per l’arretratezza sociale? Forse; donne diventate martiri di una guerra non loro? Decisamente si: come ha spiegato Fabio Piacenti, presidente dell’Eures, l’Istituto di ricerche economiche e sociali che da anni dedica al fenomeno un Osservatorio ad hoc, negli ultimi dieci anni «le donne uccise nel nostro Paese sono state 1.740 suddivise nel 71,9% in omicidi familiari, 67,6% in uccisioni legate a problematiche coppia e 26,5% per mano di un ex», consolidando una striscia negativa di eventi che, nel gergo popolare, “farebbe un baffo alla parità dei sessi”. Il dato che tuttavia risulta essere più grave nella totalità di questo “dramma”, dipinto con tinte storiche e che risale all’alba dei tempi ma che ha davvero poco da invidiare alle sue origini greche, è la spaventosa gamma di età “picchiate” da questo fenomeno anormale: tra i 16 e i 70 anni, infatti, il 31% delle donne è stato abusato sessualmente e psicologicamente, determinando un’ascesa degna dei migliori film horror. I recenti casi mortali riaccendono il dibattito politico e alimentano la fiamma di una speranza ancora non del tutta morta: «Le leggi ci sono e i centri antiviolenza devono tornare ad avere al più presto i finanziamenti necessari» afferma Piero Grasso, che affida il suo pensiero alla possibilità concreta di cambiamento, una metamorfosi tanto positiva quanto necessaria affinché, da una parte le donne si travestano da “paladine della giustizia” e denuncino una strage fatta di odio e brutalità, e dall’altra gli uomini stessi “si rivoltino contro questa infamia capitale”. La soluzione? Stare insieme, convertendo questa “libertà vigilata” in una sfida quotidiana, dove uomini e donne non si appartengano per “diritto di sangue”, ma si scelgano ogni giorno, liberamente. I casi più recenti hanno raccontato la vicenda inverosimile di un “happy ending” impossibile agli occhi della realtà alternativa del banco degli imputati: se ammazzare una ragazza con quattro colpi di pistola è normalità per un ex fidanzato, allora viviamo nella pura anarchia sociale; se strangolare una studentessa universitaria e poi bruciarla viva è semplice routine per il suo ex convivente, allora c’è da porsi qualche domanda in più;  se uccidere una venticinquenne a coltellate dall’ embolo partito di un uomo incapace di accettare la fine di una relazione, allora l’inizio dell’Apocalisse è davvero tracciato. L’appello che risuona nei timpani otturati delle famiglie vittime di questa tragedia è sempre lo stesso, una medesima implorazione verso il sentimento nobile dell’amore che non trova più pace, un’ emozione che da troppo tempo, purtroppo, è stata macchiata con la prospettiva irrealizzabile dell’indulgenza e scambiata con la follia dei coltelli, con la bugia delle pistole e con il disprezzo verso il rispetto della dignità umana: «non insegnate ai vostri figli che l’amore è tutto, non lo fate perché insegnate la menzogna; insegnate loro il rispetto per gli altri e alle vostre figlie il rispetto per loro stesse, perché 70 donne morte per mano del proprio uomo solo nei primi sette mesi dell’anno è pura follia, perché ad armare la mano degli uomini sono le donne che troppo amore danno e che poco amore si vogliono». Provare a tagliare la coda al lupo è possibile, evitare che si cibi del male che più ama è concretizzabile, ma state attente, perché se è vero che fidarsi rappresenta la vera unica soluzione ad un nuovo cambiamento, un nuovo percorso tutto in salita ma fatto di speranza viva e presente, “non fidarsi è meglio”: è buona consuetudine ricordare che “il lupo perde il pelo, ma non il vizio!”.

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