Ce.S.I, Israele di fronte al rafforzamento di Hezbollah in Siria

Nella notte tra il 6 e il 7 settembre Israele ha condotto un nuovo strike aereo in Siria. L’attacco ha colpito un complesso vicino a Masyaf, città a metà strada fra Hama e Tartus, non lontana dal confine con il Libano. Sin dall’inizio del conflitto in Siria, Israele ha sempre evitato di farsi trascinare in un intervento diretto e prolungato.

Nella notte tra il 6 e il 7 settembre Israele ha condotto un nuovo strike aereo in Siria. L’attacco ha colpito un complesso vicino a Masyaf, città a metà strada fra Hama e Tartus, non lontana dal confine con il Libano. La struttura ospitava il Centro per la ricerca scientifica di al-Tala’i, organismo legato allo sviluppo di tecnologie missilistiche avanzate e alla produzione di componenti chimici. Inoltre, il raid israeliano ha distrutto una vicina base militare adibita allo stoccaggio di diversi sistemi d’arma, tra cui missili terra-terra a corto raggio.

Non è la prima volta che l’Aeronautica di Tel Aviv colpisce degli obbiettivi in territorio siriano dopo lo scoppio della guerra civile. Il primo intervento di questo tipo risale al gennaio 2013 e ha distrutto un convoglio siriano diretto in Libano. Più volte sono stati colpiti obbiettivi all’interno dell’aeroporto Mezzeh di Damasco, in particolare depositi di armi che sarebbero state destinate a Hezbollah o ad altre milizie operanti in Siria appoggiate dall’Iran.

Sin dall’inizio del conflitto in Siria, Israele ha sempre evitato di farsi trascinare in un intervento diretto e prolungato, limitandosi soprattutto ad aumentare i pattugliamenti lungo i propri confini, specialmente nella regione del Golan, e a fornire supporto logistico ad alcuni gruppi ribelli che operano in quella zona, pur senza metterli nella condizione di poter effettivamente lanciare offensive su larga scala. Tuttavia, Israele non ha esitato a compiere raid mirati contro convogli militari, strutture e depositi controllati da Damasco ogniqualvolta ha ritenuto che dei sistemi d’arma potessero andare a rafforzare l’arsenale di Hezbollah.

Infatti, dal punto di vista israeliano, il Partito di Dio rappresenta la principale minaccia alla propria sicurezza. A Tel Aviv è ancora fresco il ricordo della rovinosa guerra del 2006, durante la quale per la prima volta le Forze Armate israeliane sono state messe in seria difficoltà dall’avversario. Undici anni fa l’Esercito israeliano non si era confrontato con un’alleanza di Paesi arabi che operavano secondo schemi convenzionali, come era accaduto in tutte le guerre precedenti a partire dal 1948. Al contrario, il punto di forza dell’organizzazione guidata da Hassan Nasrallah era l’utilizzo di tattiche asimmetriche, secondo i canoni della guerriglia. Così, mentre i missili anti-carro facevano strage di Merkava, rendendo impossibile l’avanzata delle forze israeliane, l’uso dei tunnel consentiva a Hezbollah di spostare rapidamente i suoi uomini dietro le linee nemiche e di volatilizzarsi in poco tempo, vanificando gli sforzi dell’Aeronautica israeliana.

In questo contesto, lo scoppio del conflitto in Siria nel 2011 ha rappresentato un punto di svolta importante, dal momento che ha rappresentato per Hezbollah un’occasione senza precedenti per rafforzarsi sotto il profilo capacitivo e territoriale.

Il Partito di Dio è intervenuto apertamente nel conflitto siriano all’inizio del 2013 con la battaglia di Qusayr, importante snodo strategico per i collegamenti tra Siria e Libano del nord. Da allora ha costantemente aumentato il proprio impegno all’interno del fronte che sostiene il Presidente Bashar al-Assad, arrivando a schierare circa 8.000 miliziani e partecipando anche a offensive lontane dall’area di confine, dove sono concentrati i suoi interessi. Infatti, il sostegno ad Assad è motivato dalla necessità di avere in Damasco un regime alleato, che possa garantire l’afflusso verso il Libano di rifornimenti e finanziamenti provenienti dall’Iran, principale sponsor del Partito di Dio. Di conseguenza, nel contesto del conflitto, Hezbollah ha combattuto principalmente nell’area dell’Anti-Libano per tenere aperti i collegamenti terrestri con la valle della Beqaa e Beirut.

La partecipazione del Partito di Dio al conflitto siriano insieme all’Iran ha posto le basi per un aumento qualitativo, oltre che quantitativo, degli armamenti nella disponibilità dell’organizzazione di Nasrallah. In secondo luogo, la guerra in Siria ha modificato le modalità con cui Hezbollah può ricevere rifornimenti. Dal 2006, anno del ritiro delle forze siriane dal Libano, fino al 2011, questi arrivavano per via aerea a Damasco e venivano trasferiti in Libano via terra. Invece, dallo scoppio del conflitto in avanti, le forniture possono essere stoccate in territorio siriano restando nella piena disponibilità di Hezbollah.

Queste evoluzioni hanno portato a conseguenze rilevanti. Innanzitutto, si apre la possibilità per il Partito di Dio di riuscire a controllare direttamente strutture e impianti militari in Siria, con la prospettiva di produrre anche sistemi d’arma avanzati. Lo strike israeliano del 6 settembre sarebbe stato diretto precisamente contro una struttura adibita a questo scopo, che sarebbe stata controllata da elementi dei Pasdaran e ufficiali di Hezbollah. Inoltre, l’agibilità del territorio siriano consente al Partito di Dio di moltiplicare anche depositi e postazioni di lancio. Di conseguenza, per Israele risulterebbe più complesso tracciare le linee di rifornimento, bloccare o monitorare i trasferimenti, così come distruggere le infrastrutture militari dell’avversario in caso di conflitto aperto.

Ai fattori finora menzionati va poi aggiunto il notevole bagaglio di competenze ed esperienza maturato da un numero significativo di miliziani di Hezbollah nel corso del conflitto in Siria che ha ampliato il bagaglio dottrinale della milizia del Partito di Dio.

Considerati nel loro insieme, tutti questi elementi concorrono a innalzare notevolmente il livello di minaccia che Hezbollah rappresenta per Israele. Ad ogni modo, bisogna sottolineare che la crescita capacitiva del Partito di Dio non è necessariamente la premessa a un attacco a Tel Aviv. L’obbiettivo di Hezbollah, infatti, non è muovere guerra a Israele né conquistarne parte del territorio, bensì mantenere una pressione costante, o aumentarla, anche solo come minaccia potenziale. In questo modo, Hezbollah può riuscire a rendere sostanzialmente inutile la superiorità tecnologica in termini di armamenti di cui Israele dispone.

In base a quanto detto finora, risulta evidente che la risposta di Tel Aviv alla crescita capacitiva di Hezbollah si sia dovuta necessariamente concentrare su singoli interventi mirati, volti all’interruzione dei rifornimenti verso il Libano e alla distruzione di specifiche infrastrutture, che tuttavia non possono bloccare alla radice il rafforzamento dell’avversario. In altri termini, Israele ha dovuto subire le conseguenze dell’andamento di un conflitto complesso, dove si intrecciano interessi e attività di potenze regionali e globali, il cui esito finale non poteva essere determinato in modo certo da un intervento militare diretto di Israele, né da una sua maggiore attività diplomatica.

Tuttavia, Tel Aviv non ha rinunciato a utilizzare lo strumento diplomatico per mantenere aperto un canale con la Russia. Israele e Russia potrebbero quindi aver raggiunto un accordo in base al quale, in cambio dell’impegno di Tel Aviv a non interferire nel conflitto contro Assad, Mosca ha dato la disponibilità a tollerare determinati interventi dell’Aeronautica israeliana. Va sottolineato infatti che Israele ha compiuto raid in Siria senza che venissero attivati i sistemi missilistici di difesa anti-aerea S-300 e S-400, la cui operatività dipende proprio da Mosca.

In un quadro in cui il ventaglio degli strumenti a disposizione di Israele per contrastare Hezbollah appare piuttosto limitato, nel prossimo futuro Tel Aviv potrebbe trovare una sponda in Washington. Dopo la lunga parentesi rappresentata dai due mandati di Obama, durante i quali i rapporti tra i due tradizionali alleati si erano notevolmente raffreddati, l’insediamento dell’Amministrazione Trump potrebbe preludere a un’inversione di rotta, sulla cui portata e solidità resta comunque un ampio margine di incertezza.

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