Batterio mangia-plastica: l’Apocalisse non aveva previsto la scienza

Se nel libro dell’Apocalisse non c’è scritto che l’essere umano terminerà la sua esistenza con l’inquinamento degli oceani, probabilmente è perché già veniva messo in conto l’entrata in gioco di un “supereroe” alquanto inatteso sulla scena della bonifica mondiale dalla plastica: il batterio “mangia-plastica”.

Se nel libro dell’Apocalisse non c’è scritto che l’essere umano terminerà la sua esistenza con l’inquinamento degli oceani, probabilmente è perché già veniva messo in conto l’entrata in gioco di un “supereroe” alquanto inatteso sulla scena della bonifica mondiale dalla plastica: il batterio “mangia-plastica”. L’elevato inquinamento degli oceani è e sta diventando un grandissimo problema per il nostro pianeta: secondo recenti ricerche della Sea Education Association pubblicate sulla rivista Scienze, infatti, lo scenario è destinato a peggiorare e si stima che nel 2050 troveremo più plastica che pesci nelle acque marine, qualcosa come 311 di tonnellate prodotte ogni anno, di cui 12,7 milioni finiscono nei mari e negli oceani.

Per questo motivo, ricercatori e scienziati lavorano per generare soluzioni a questo problema drammatico, sviluppandone a volte anche alcune fantasiose. Andando in ordine, è il caso di un batterio sviluppato dagli studenti Jeanny Yao e Miranda Wang, che hanno ricevuto un finanziamento di 400.000 dollari per iniziare a portare avanti il progetto ed ottenuto il possesso del brevetto. La particolarità di questo loro batterio è quella di trasformare la plastica in CO2 e acqua, utilizzandolo soprattutto per due motivi: pulire le spiagge e produrre materie prime per l’abbigliamento. ‹‹E’ praticamente impossibile far smettere di usare la plastica››, dice Miranda Wang, sottolineando come è entrata in auge la necessità assoluta di prendere in considerazione una ‹‹nuova tecnologia per rompere il materiale facendola diventare biodegradabile››. Lo sviluppo di questa tecnologia si divide in due parte: in primo luogo la plastica viene disciolta in Pet, polietilene tereftalato, mentre successivamente, dopo essere stata collocata in una stazione di biodigestione, viene “attaccata” dagli enzimi che, come catalizzatori del processo, la convertono nei suoi monomeri e si comportano come se fossero avanzi di cibo, “divorandola” per la crescita del batterio stesso.

Yao e Wang non sono comunque gli unici ad aver portato avanti un progetto di innovazione tecnologica. Un nuovo studio, pubblicato sul Journal of Hazardous Materials e portato avanti da un team di ricercatori internazionali, ha infatti analizzato altri batteri mangia-plastica, dei veri e propri microrganismi marini che formano comunità microbiotiche e si accumulano sulla plastica per contribuire al suo degrado attraverso un meccanismo biologico naturale. ‹‹Il degrado abiotico precede e stimola la biodegradazione›› della plastica in microplastiche e nanoplastiche, spiegano i ricercatori guidati da Evdokia Syranidou dell’Università di Creta, in Grecia, sottolineando come, in questo modo, ‹‹una vasta gamma di organismo può stabilirsi sulla superficie esposta alle intemperie, utilizzandola come substrato e fonte di carbonio››. Dopo aver fatto esperimenti sia con organismi naturali presenti nel mare e ceppi bioingegnerizzati, in grado di sopravvivere con polietilene e polistirolo come unica fonte di carbonio, si è scoperto che i batteri erano riusciti a ridurre il peso del primo fino al 7% e del secondo all’11%. ‹‹I nostri risultati››, spiegano i ricercatori, ‹‹suggeriscono che le comunità marine hanno la capacità di prosperare in presenza di composti di materie plastiche e di partecipare al loro degrado››.

Anche un’equipe di scienziati del Kyoto Institute of Technology ha isolato una specie di batterio, la Ideonella Sakaiensis, in grado di “divorare” la plastica, utilizzandola come fonte di sostentamento e crescita mediante l’azione chimica di soli due enzimi. Come nel caso di Yao e Wang, il batterio è particolarmente “goloso” di Pet, la plastica più diffusa al mondo ed utilizzata per scopi alimentari, ed è assolutamente unico nel suo genere. I ricercatori, guidati da Shousuke Yoshida, hanno identificato i due enzimi chiave nella reazione di idrolisi della plastica, descrivendo in dettaglio il processo: il primo si chiama PETase, ed è secreto dal batterio quando questi aderisce alle superfici plastiche, mentre il secondo si chiama MHET idrolase, ed è quello responsabile della rottura delle catene di PET in molecole più piccole e “innocue”, l’acido tereftalico e il glicole etilenico. ‹‹Il processo››, aggiungono gli scienziati, ‹‹è purtroppo abbastanza lento perché la degradazione completa di una piccola pellicola in PET impiega circa sei settimane alla temperatura di 30 °C››, ma, nonostante ciò, ‹‹la scoperta potrebbe avere implicazioni molto importanti per il riciclo delle plastiche, così come per lo studio dei principi dell’evoluzione degli enzimi››.

La plastica abbonda negli oceani: pronti ad utilizzare nuove soluzioni scientifiche?
La plastica abbonda negli oceani: pronti ad utilizzare nuove soluzioni scientifiche?

Un altro gruppo di scienziati dell’Università di Portsmouth, nel Regno Unito, e del Laboratorio Nazionale delle Energie Rinnovabili degli USA hanno invece cercato di migliorare la performance del PETase: il nuovo enzima, descritto su Proceedings of the National Academy of Sciences, permetterebbe di tornare ai “blocchi di partenza” e ricostruire un Pet di qualità elevata. Hanno, così, utilizzato il Diamond Light Source, uno strumento vicino a Oxford che produce raggi X 10 miliardi più intensi di quelli del Sole, per dettagliare la struttura atomica dell’enzima: questo è parso molto simile a quello prodotto dai batteri per degradare la cutina, la sostanza idrofoba che riveste molte parti esposte delle piante. Quando il team ha alterato la struttura dell’enzima per esplorare questa connessione evolutiva, le sue capacità di degradare il PET sono migliorate del 20%, migliorando la velocità e ottimizzandolo al massimo. Si è già presa in considerazione la possibilità di trasferirlo su batteri estremofili capaci di sopportare temperature superiori ai 70 °C di fusione del PET: la plastica si degrada infatti molto più rapidamente, quando è sciolta. Inoltre, poiché l’enzima mutante sembra capace di restituire i mattoni di base usati nella produzione, poterlo impiegare in ambito industriale vorrebbe dire riciclare completamente, senza bisogno di impiegare nuovi combustibili fossili per fabbricare nuove bottiglie.

Dunque, sembra essere arrivati alla svolta: se il problema è particolarmente sentito in Italia, dove secondo il rapporto Marine litter 2018, pubblicato da Legambiente a novembre scorso, il 95% dei 2597 rifiuti galleggianti in 120 chilometri quadrati di mare è fatto di plastica, ora si potrebbe timidamente pensare ad un risanamento e ad una “bonifica marittima” definitiva. Tutto va in quella direzione, ed il mare è pronto a far ricredere ogni singola parola dell’Apocalisse. Batterio mangia-plastica permettendo.

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